Arch. Giulio Dagostini 

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Venerdì 18 settembre finalmente verrà inaugurata l’Aula sotto il Cielo, presso il giardino della Scuola Caprin. L’occasione avviene in un momento delicato, dove la situazione sanitaria rende l’inizio di quest’anno scolastico quanto mai incerto. Le misure di sicurezza, il distanziamento, impongono il ridisegno delle stesse classi, con un fabbisogno di spazio per alunno che molti dei nostri istituti non riescono a garantire. 

Proprio per questo vorremmo raccontare la nostra piccola esperienza, con la convinzione che la situazione contingente possa essere sfruttata per promuovere un diverso approccio al problema, contribuendo a sviluppare una riflessione sul modo di fare e vivere la scuola.

Partiamo ponendoci una domanda: cosa ricordiamo della nostra scuola? Credo che, salvo alcune eccezioni, potremmo circoscrivere molti dei nostri ricordi al semplice perimetro della nostra classe. In effetti la maggior parte del tempo l’abbiamo vissuto lì, seduti con il banco davanti, forse talvolta guardando furtivamente fuori dalla finestra, desiderando una boccata d’aria o di goderci una bella giornata di sole invece di rimanere confinati in uno spazio chiuso. Se ci pensiamo lo schema delle aule in cui abbiamo studiato, ed in cui ancora molti ragazzini studiano oggi, non è molto diverso dal modello ottocentesco: una cattedra, una lavagna, dei banchi disposti a file… gli stessi edifici scolastici sono concepiti per perpetuare questo modello, senza consentire diverse tipologie di configurazione o una certa flessibilità… eppure sarebbe possibile rivoluzionare questo modo di concepire lo spazio e la didattica?

Da questa riflessione è partito Dario Gasparo, insegnante della scuola secondaria di primo grado G. Caprin di Trieste. Le lezioni di Dario si svolgono all’aperto, l’idea è che gli studenti imparino meglio se svolgono le attività in movimento, alternando i necessari periodi nei quali devono stare seduti nel chiuso di un’aula con lezioni all’aperto durante le quali sia possibile vivere sul campo alcune esperienze, partendo dalla pratica per poi arrivare alla teoria.

E’ il 2017 e Dario viene selezionato assieme ad altri quattro docenti italiani tra 11.000 partecipanti alla prima edizione dell’Italian Teacher Prize. Si tratta di un riconoscimento in denaro per l’attività professionale svolta come insegnante, selezionato da una commissione del Ministero e coadiuvata da personalità note nel mondo culturale italiano.

L’idea è di investire i 30.000 euro del premio per realizzare qualcosa da donare alla scuola, ma quale progetto mettere in campo? E’ proprio da questa domanda, che parte il nostro lavoro di architetti. La scuola Caprin è un possente edificio progettato negli anni ’60 dall’architetto Aldo Rossi. E’ un edificio ricco di ambienti, una palestra molto grande, sale di musica, laboratori… ma i suoi spazi aperti non sono fruibili, anzi, oltre ai cortili che separano le varie ali dell’istituto un po’ in disparte troviamo un giardino nascosto, un triangolo di terreno di 900 mq che dall’epoca della costruzione della scuola è rimasto inagibile, recintato da una parte da uno steccato di metallo e dall’altro da un possente muro in calcestruzzo. Uno spazio di nessuno, totalmente abbandonato che un po’ alla volta Dario ha cercato di esplorare assieme ai suoi studenti, prendendone le misure e studiando gli alberi e gli arbusti che vi sono cresciuti.

Si parte da una suggestione: riprendere possesso di questo fazzoletto di terra piantando un albero attorno al quale si possa fare lezione protetti dai suoi rami. L’idea riprende le linee guida tracciate da Renzo Piano per la sua scuola ideale, dove l’albero diventa il centro ideale della scuola, la sua memoria storica. Storicamente attorno all’albero si riuniscono le comunità che spesso si riconoscono in questi organismi longevi e resistenti. Alcuni paesi hanno scelto ad emblema, sulla bandiera, un simbolo vegetale, ma in ogni cultura sono stati individuati degli alberi simbolo, che rappresentano la forza, la salute, la fertilità, la pace. Parlando con Dario prende vita l’idea di dare una forma al suo metodo d’insegnamento disegnando un’aula senza pareti, verde, aperta, un’aula sotto il cielo. All’ombra dell’albero si apre quindi un anfiteatro ricavato dal terreno modellato come il cratere di un piccolo vulcano, le sedute in calcestruzzo grezzo potranno col tempo essere decorate con disegni, elementi grafici, i professori di educazione artistica potrebbero sbizzarrirsi! Qui si potranno svolgere lezioni frontali ma sarà possibile utilizzarlo per finalità diverse: saggi, rappresentazioni teatrali, letture, luogo di aggregazione o semplicemente per sdraiarsi a contemplare le costellazioni. Provate ad immaginare un’esibizione di musica all’aperto, che possa essere ascoltata da tutto il quartiere.

L’accesso avviene da un percorso che si snoda parzialmente in trincea, occasione che offre agli studenti un punto di vista particolare e insolito: quello di un riccio che cammina basso sul terreno alla ricerca di lombrichi, insetti, radici… con il tempo i ragazzi potranno arricchire questo sentiero con nuove essenze contribuendo così allo sviluppo del giardino. Sarà bello per molti di loro vedere crescere quanto hanno seminato. Nascosto, invece, tra l’erba alta, si trova uno stagno dove i ragazzi potranno osservare rane ed altri anfibi e prendersene cura. Infine l’accesso avviene tagliando il muro in calcestruzzo, andando ad aprire una finestra verso questo spazio per tanto tempo ignorato.

Tutto ciò è stato reso possibile non soltanto grazie al premio, ma grazie anche al fondamentale contributo della fondazione CRT, della Fondazione Casali nonché dell’associazione MiTi e delle Officine Barnobi che hanno creduto al progetto ed hanno deciso di sposarne la causa.

Il nostro desiderio è che questo progetto metta in luce la possibilità di cambiare il modo di abitare l’edificio scolastico, mostrando come anche la stessa scuola possa essere ripensata in molti suoi spazi. L’obbiettivo è che si riesca ad uscire dalle pareti della classe, quel perimetro di cui parlavamo all’inizio, recuperando ironicamente lo spirito contemplativo di chi sognava guardando fuori dalla finestra. Tuttavia questo non sarebbe che il primo passo, ci piace immaginare ad una struttura complessa, dove l’attività non si esaurisca al suono del campanello dell’ora di pranzo, ma che sia un luogo aperto al quartiere ed alla città.

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